“Non è l’acqua a essere scarsa, ma il denaro”, afferma Bernard Barraqué, ricercatore del Cnrs (il Cnr francese), uno dei massimi esperti di economia idrica. È un concetto che è bene memorizzare, da usare uno strumento critico di fronte ai ripetuti allarmi sulla crisi delle nostre risorse idriche e sulla “privatizzazione dell’acqua”. Se osserviamo i dati con obiettività, scopriremo che non c’è un problema di scarsità in assoluto, semmai è la disponibilità in un preciso luogo e a costi ragionevolmente bassi a fare la differenza.
L’acqua è pesante e spostarla costa caro, ma a un prezzo molto alto può essere disponibile anche nel deserto, basta un dissalatore ed essere disponibili a pagare un prezzo elevato. Già la conferenza internazionale di Dublino del 1992 aveva posto l’attenzione proprio su questo punto, dichiarando l’acqua un bene economico. Ovviamente non stiamo parlando dell’elemento che possiamo trovare in natura, quanto del valore che acquista il bene nei diversi usi: per esempio, potabile, irriguo, nella produzione di energia, eccetera.
Per molto tempo si è pensato che questo bene così vitale fosse inesauribile, non è così. Abbiamo imparato che c’è un limite, la sostenibilità ambientale. Già da alcuni anni, la nuova parola d’ordine della politica europea è la gestione integrata delle risorse idriche.
In questa prospettiva, era stata varata la Direttiva europea 2000/60 (Water framework directive, Wfd) che afferma un principio inderogabile: il raggiungimento di un buono stato ecologico di tutti gli acquiferi. Gli usi, anche quelli umani sono subordinati a questo obiettivo minimo: entro il 2016, tutti i corpi idrici superficiali devono raggiungere il “buon stato ecologico”. E ancora “a partire dal 2010 gli Stati membri devono provvedere affinché le politiche dei prezzi dell’acqua incentivino adeguatamente i consumatori a usare le risorse idriche in modo efficiente e affinché i vari settori di impiego dell’acqua contribuiscano al recupero dei costi dei servizi idrici, compresi i costi per l’ambiente e le risorse”.
È in questa prospettiva che dobbiamo affrontare il tema della penuria o più semplicemente della corretta gestione di un bene essenziale per la vita e lo sviluppo umano. Ma il percorso non è semplice, non è lineare. Parlare di acqua significa evocare emozioni profonde. Vuol dire scontrarsi con uno dei più potenti simboli della storia umana. Basti pensare che il mito del diluvio universale, con alcune varianti, è presente in tutte le civiltà e in tutte le latitudini. Ecco perché il dibattito sul diritto all’acqua e sulla privatizzazione imbocca quasi sempre lo scivoloso sentiero del linguaggio simbolico, della politica e quello ancora più insidioso dell’ideologia.
Che cosa vuol dire allora diritto all’acqua in Europa? Certamente ci sono aree depresse dove l’accesso ai servizi idrici non è sempre è garantito con regolarità. In Italia, per esempio, otto milioni di cittadini non hanno un accesso regolare all’acqua e durante i mesi estivi dispongono di una dotazione giornaliera pro capite media di 40 litri, ben al di sotto della soglia minima vitale fissata dall’Onu in 50 litri al giorno. Ma in generale non è in discussione questo fondamentale diritto come invece avviene nei Paesi del Terzo Mondo. Non è in discussione la proprietà dell’acqua. In Italia come nel resto dell’Europa, fiumi, laghi, fonti e falde sono e restano pubbliche.
Il dibattito sul diritto all’acqua quindi si sposta sul terreno politico: la scelta del modello di gestione dei servizi idrici al fine di garantire un bene supremo: la sostenibilità economica e ambientale.
I servizi idrici così concepiti sono servizi che peseranno molto di più nelle tasche dei cittadini, l’attuazione delle direttive europee richiederà investimenti che è difficile quantificare oggi ma che vanno nell’ordine di parecchie decine o centinaia di milioni di euro: si tratta di investimenti estremamente importanti per i quali il bilancio pubblico sicuramente non ha le risorse a disposizione.
La ricerca dell’efficienza, di una logica imprenditoriale, l’esigenza di una maggiore e più chiara separazione di ruoli fra regolazione e gestione, e soprattutto l’esigenza di sgravare la finanza pubblica dall’onere dei nuovi investimenti, sono i motivi per cui oggi in quasi tutti i Paesi si va alla ricerca di meccanismi per coinvolgere il settore privato nei servizi idrici. In questo senso, l’Unione europea detta principi tesi a garantire che il mercato abbia, anche nel campo dei servizi di pubblica utilità, il massimo spazio.
La politica europea della concorrenza nel campo delle public utilities si regge su una sorta di “doppio binario” che distingue i cosiddetti “servizi di interesse generale” (SIG), cioè le attività in cui gli Stati membri sono legittimati in qualche modo a derogare al principio generale della libera concorrenza in nome di un interesse collettivo, e quelli che invece vanno sotto il nome di “servizi di interesse economico generale” (SIEG), che sono pur sempre servizi di interesse generale però nei quali la tutela dell’interesse pubblico non deve necessariamente sottrarsi al confronto con la competizione; in particolare i “servizi di interesse economico generale” sono i servizi che hanno natura commerciale, cioè servizi nei quali è prevista una qualche libertà di contrattazione fra chi fornisce il servizio e chi lo riceve.
La differenza è rilevante. Nel caso dei SIEG, l’interesse generale della collettività va bilanciato con l’esigenza di garantire libero accesso al mercato senza creare situazioni di privilegio per certi operatori. Nel caso più generale dei SIG, gli stati membri possono introdurre questo tipo di privilegi, incluso quello di attribuire a se stessi o a proprie aziende l’esercizio di questi diritti esclusivi, mentre l’obbligo di rispettare il mercato in un certo senso “retrocede” di un livello, dovendosi adottare meccanismi rispettosi della concorrenza per affidare concessioni a soggetti terzi.
Non esistendo una specifica direttiva sul settore idrico, l’appartenenza all’una o all’altra categoria è fortemente in discussione.
Non è però scritto da nessuna parte che i soggetti pubblici siano per forza obbligati a scegliere attraverso una gara l’operatore che gestisce il servizio (in Italia, l’articolo 23 bis della Legge 133 del 6 agosto 2008 è invece al di fuori di questa logica); l’opzione della gestione pubblica rimane legittima – del resto la stragrande maggioranza dei Paesi europei si avvale di questo tipo di strumento. In particolare la questione riguarda la legittimità di affidamenti senza gara o sulla base di quale principio si può accettare che praticamente tutti i Paesi europei nel settore idrico prevedano forme di affidamento diretto a imprese che si muovono nell’ambito del diritto privato, ma non sono controllate interamente dal soggetto pubblico, dalle Water Company inglesi (interamente private, eppure titolari di un affidamento addirittura vitalizio stabilito dalla legge) alle Stadtwerke tedesche.
Dobbiamo renderci conto che il coinvolgimento del settore privato, che anima tanto il dibattito pubblico, può avvenire percorrendo diverse strade di cui si può discutere ma non siamo alla privatizzazione dell’acqua come tendono a dire con una certa enfasi e faciloneria i giornali.
Il fatto che l’acqua possa diventare un bene privato e la sua compravendita possa essere equiparabile alla compravendita di gas o di altre risorse naturali, che sono liberamente appropriabili da parte di privati, non esiste in Europa, dove invece i diritti di proprietà sulla risorsa sono e rimangono senza discussione in mano al soggetto pubblico. Tuttavia, il confine può essere sottile tra questa forma estrema e la gestione privata del servizio, magari nelle mani di una grande multinazionale che affida il valore della sua attività alla quotazione delle azioni al Cac di Parigi o alla Borsa di Milano. Ecco allora che l’acqua e la finanza possono scorre insieme generando fiumi di denaro.
Fonti: Direttiva europea 2000/60; il libro
L’acqua, di Antonio Massarutto, (Il Mulino, 2008) e
Acqua Spa. Dall’oro nero all’oro blu, di Giuseppe Altamore (Oscar Mondatori, 2006)