Narcisista, manipolatore, bugiardo patologico, privo di empatia. Sono alcune delle espressioni usate da medici e studiosi per descrivere Donald J. Trump, presidente degli Stati Uniti per la seconda volta. Ma si tratta solo di insulti politici? Oppure dietro il personaggio divisivo si cela un reale disturbo della personalità, potenzialmente pericoloso per le istituzioni democratiche e per il mondo?
A questa domanda hanno cercato di rispondere psichiatri, psicologi e accademici americani, alcuni dei quali hanno messo a rischio la propria reputazione per denunciare pubblicamente un’anomalia mai vista nella storia politica americana. In questo articolo ricostruiamo le voci, i fatti e i confronti storici che fanno luce su una delle figure più controverse del nostro tempo.
Quando la psichiatria accusa il potere
Il primo segnale d’allarme risale al 2017, pochi mesi dopo l’insediamento di Trump alla Casa Bianca. La psichiatra forense Bandy X. Lee, docente a Yale, organizza un incontro riservato con membri del Congresso per presentare una tesi esplosiva: Trump rappresenta un pericolo psichiatrico per la sicurezza nazionale. Pochi mesi dopo pubblica il volume collettivo The Dangerous Case of Donald Trump, in cui 27 professionisti (poi 37 nella seconda edizione) delineano un profilo compatibile con quello del narcisismo maligno: un misto di grandiosità, sadismo, paranoia e antisocialità.
La dottoressa Lee invoca il principio etico del “duty to warn” — dovere di avvertire — che autorizza gli psichiatri a parlare pubblicamente se un individuo rappresenta una minaccia per gli altri.
Il volume ha successo, ma divide la comunità scientifica. L’American Psychiatric Association (APA) ribadisce la cosiddetta Goldwater Rule, che vieta diagnosi pubbliche senza esame diretto del paziente. Eppure, il dubbio ormai è seminato.
Mary Trump: i segnali in famiglia
Nel 2020 un nuovo colpo di scena: Mary Trump, psicologa clinica e nipote del presidente, pubblica il best seller Too Much and Never Enough. Il ritratto familiare è agghiacciante: un padre freddo e crudele, un ambiente disfunzionale, un bambino – Donald – costretto a reprimere ogni emozione per sopravvivere, fino a costruirsi un’identità di cartapesta fatta di forza apparente, arroganza e totale incapacità di provare empatia.
Mary Trump è netta: lo zio mostra tutti i nove criteri clinici per il disturbo narcisistico di personalità, oltre a tratti antisociali e paranoidi. Non ha dubbi: «Donald è pericoloso non solo per il paese, ma per chiunque gli sia vicino».
Petizioni, lettere aperte e silenzi imbarazzati
Nel 2024, in piena campagna elettorale, una coalizione di oltre 200 esperti della salute mentale pubblica un annuncio sul New York Times, accusando Trump di essere clinicamente inadatto alla presidenza. I firmatari parlano esplicitamente di “narcisismo maligno”, personalità antisociale e disprezzo delle regole, definendolo “non curabile”.
Tra le iniziative precedenti, spicca la petizione del dottor John Gartner, ex docente alla Johns Hopkins University, che nel 2017 raccolse oltre 41.000 firme di professionisti preoccupati per il comportamento “sociopatico e sadico” del presidente.
Chi difende Trump, anche sul piano clinico
Non mancano le voci critiche. Il più autorevole è Allen Frances, ex direttore dei lavori sul DSM‑IV, la “bibbia” della psichiatria. Per Frances, Trump non ha un vero disturbo mentale perché non sperimenta disagio soggettivo né compromissione della funzionalità sociale — due criteri fondamentali per una diagnosi.
Secondo Frances, la vera minaccia non è Trump come individuo, ma la società che lo ha reso possibile: «Trump non è pazzo. È il sintomo di una cultura malata».
Confronti storici: altri leader controversi
Trump non è il primo leader a suscitare dubbi psichiatrici. Nel passato recente, alcuni presidenti Usa sono stati oggetto di speculazioni:
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Richard Nixon, paranoico e ossessionato dal controllo, fu al centro dello scandalo Watergate. Alcuni collaboratori descrivevano comportamenti compulsivi e reazioni rabbiose incontrollabili.
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Lyndon B. Johnson mostrava segni di depressione grave e tratti narcisistici, alternando momenti di esaltazione e crisi profonde.
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Ronald Reagan, negli ultimi anni del secondo mandato, sembrava manifestare sintomi di declino cognitivo, poi confermati dalla diagnosi di Alzheimer nel 1994.
Ma nessuno di questi casi ha prodotto un’analisi clinica pubblica e diffusa come quella su Trump. In parte, anche per il cambiamento del ruolo dei media e dei social network che all’epoca non esistevano.
Manipolazione di massa o disfunzione profonda?
Il comportamento di Trump ha effetti misurabili: incoraggia teorie del complotto, divide l’opinione pubblica in modo manicheo, attacca sistematicamente la stampa e le istituzioni. L’uso sistematico della menzogna, l’aggressività verbale, l’ossessione per la lealtà personale e l’autoglorificazione costante sono segnali che molti esperti leggono come indicatori di una struttura di personalità gravemente disfunzionale.
Ma non è solo una questione clinica. Trump ha un seguito enorme. Il suo modo di comunicare, spesso definito “primitivo ma efficace”, sembra attivare meccanismi inconsci di identificazione e rispecchiamento. Un leader disturbato che dà voce a un disagio collettivo?
Il dilemma democratico
Il caso Trump riapre una domanda antica: fino a che punto la salute mentale di un leader può essere oggetto di discussione pubblica? Dove finisce il rispetto della persona e dove inizia il dovere di proteggere la collettività? La domanda rimane aperta: quanto può essere fragile, nel profondo, una democrazia che si affida a leader potenzialmente pericolosi?